Monet
Casa dell'artista, veduta dal giardino delle rose Casa dell'artista, veduta dal giardino delle rose,
1922-1924,
Olio su tela;
cm 89 x 92,
Parigi, Musée Marmottan.

Monet, spintosi fino agli estremi confini della rappresentazione, tramuta la sua arte in un'altra arte, che si genera non più solo dalla sensazione, ma dall'intelletto e dà espressione concreta alle percezioni dell'istinto. L'artista non perde mai il contatto con la realtà, ma opera un processo di progressiva semplificazione e astrazione del soggetto, profetizzando le ricerche informali del secondo dopoguerra.

Ormai alla fine del suo percorso artistico, Monet torna a dipingere la casa di Giverny in una serie di immagini vibranti di colore. La casa e il giardino appaiono però molto diversi rispetto alle vedute realizzate circa vent'anni prima:

certo, il giardino ha subito profondi cambiamenti, ma è soprattutto la capacità visiva di Monet, nella sua totalità, ad aver subito una trasformazione fisica e psicologica, imputabile anche ai gravi problemi alla vista.

«La deformazione e i colori assolutamente esagerati che percepisco mi fanno assolutamente impazzire», scrive all'amico Georges Clemenceau in una lettera dettata nel 1923. Ma già qualche tempo prima della guarigione può affermare: «la mia visione dei colori è tornata com'era e io ho approfittato di questi momenti per fare le necessarie rettifiche».

Le ultime vedute della casa e del giardino, ma anche dei ponti giapponesi e dei salici piangenti vanno considerate all'interno di un discorso molto complesso che coinvolge l'artista sul piano fisico nel momento di geniale intuizione artistica cui appartiene anche questo capolavoro.

Non vi è più alcuna preoccupazione per la profondità spaziale: lo spazio, come del resto la luce e i colori, sono elaborazioni interne al soggetto; Monet descrive la "sua" percezione della casa vista dal giardino delle rose. Semmai la tridimensionalità ha acquisito una dimensione allucinatoria: ciò che non si vede è percepito grazie alle vibrazioni di colore.

Tocchi brevi, nervosi e concitati sembrano addentrarsi nella parte centrale della tela, dandoci l'esatta sensazione del sentiero; altri più lenti, densi di velature dorate, permettono di "sentire" l'atmosfera luminosa. Rubini e smeraldi accendono la tavolozza intarsiata, come la superficie pittorica, di pagliuzze dorate che catturano la luce.

È straordinaria la capacità di rinnovamento di un'arte che rimase sempre coerente con se stessa. Nel 1921 de Régnier renderà omaggio a questo straordinario estro, scrivendo: «né il tempo, né la fatica, né la gloria, né l'età né il suo grande sforzo hanno stancato la vostra mano, e per voi, o Monet, il più bel paesaggio sarà sempre quello che dipingerete domani».



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