Cimabue

VITA DI CIMABUE
Giorgio Vasari
Erano per l'infinito diluvio de' mali che avevano cacciato al disotto e affogata la misera Italia non solamente rovinate quelle che veramente fabriche chiamar si potevano, ma - quello che importava più - spento affatto tutto il numero degl'artefici, quando, come Dio volle, nacque nella città di Fiorenza l'anno MCCXL, per dar e' primi lumi all'arte della pittura, Giovanni cognominato Cimabue, della nobil famiglia in que' tempi d'i Cimabui. Costui crescendo, per esser giudicato dal padre e da altri di bello e acuto ingegno, fu mandato acciò si esercitasse nelle lettere in S. Maria Novella a un maestro suo parente che allora insegnava grammatica a' novizii di quel convento. Ma Cimabue in cambio d'attendere alle lettere consumava tutto il giorno, come quello che a ciò si sentiva tirato dalla natura, in dipingere in su' libri et altri fogli, uomini, cavalli, casamenti et altre diverse fantasie.
Alla quale inclinazione di natura fu favorevole la fortuna, perché essendo chiamati in Firenze da chi allora governava la città alcuni pittori di Grecia, non per altro che per rimettere in Firenze la pittura più tosto perduta che smarrita, cominciarono fra l'altre opere tolte a far nella città la capella de' Gondi, di cui oggi le volte e le facciate sono poco meno che consumate dal tempo, come si può vedere in Santa Maria Novella allato alla principale capella, dove ell'è posta. Onde Cimabue, cominciato a dar principio a questa arte che gli piaceva, fuggendosi spesso dalla scuola stava tutto il giorno a vedere lavorare que' maestri; di maniera che, giudicato dal padre e da quei pittori in modo atto alla pittura che si poteva di lui sperare, attendendo a quella professione, onorata riuscita, con non sua piccola sodisfazzione fu da detto suo padre acconcio con essoloro. Là dove di continuo esercitandosi, l'aiutò in poco tempo talmente la natura che passò di gran lunga, sì nel disegno come nel colorire, la maniera de' maestri che gli insegnavano; i quali, non si curando passar più innanti, avevano fatte quelle opre nel modo che elle si veggono oggi, cioè non nella buona maniera greca antica, ma in quella goffa moderna di que' tempi.
E perché, se bene imitò que' Greci, aggiunse molta perfezzione all'arte levandole gran parte della maniera loro goffa, onorò la sua patria col nome e con l'opre che fece; di che fanno fede in Fiorenza le pitture che egli lavorò, come il dossale dell'altare di S. Cecilia, et in S. Croce una tavola drentovi una Nostra Donna, la quale fu et è ancora appoggiata in uno pilastro a man destra intorno al coro. Doppo la quale fece in una tavoletta in campo d'oro un S. Francesco, e lo ritrasse (il che fu cosa nuova in que' tempi) di naturale come seppe il meglio, et intorno a esso tutte l'istorie della vita sua in venti quadretti pieni di figure picciole in campo d'oro. Avendo poi preso a fare per i monaci di Vallombrosa nella Badia di S. Trinita di Fiorenza una gran tavola, mostrò in quella opera, usandovi gran diligenza per rispondere alla fama che già era conceputa di lui, migliore invenzione e bel modo nell'attitudini d'una Nostra Donna ch'e' fece col Figliuolo in braccio e con molti Angeli intorno che l'adora vano, in campo d'oro; la qual tavola finita, fu posta da que' monaci in sull'altar maggiore di detta chiesa, donde essendo poi levata per dar quel luogo alla tavola che v'è oggi di Alesso Baldovinetti, fu posta in una capella minor[e] della na vata sinistra di detta chie sa. Lavorando poi in fresco allo spedale del Porcellana, sul canto della via Nuova che va in Bor go Ognisanti, nella fac ciata dinanzi che ha in mez[z]o la porta princi pale, da un lato la Vergi ne Annunziata da l'An gelo e da l'altro Gesù Cristo con Cleofas e Lu ca, figure grandi quanto il naturale, levò via quel la vecchiaia facendo in quest'opra i panni e le vesti e l'altre cose un po co più vive e naturali e più morbide che la ma niera di que' Greci, tutta piena di linee e di proffi li così nel musaico come nelle pitture; la qual ma niera scabrosa e goffa et ordinaria avevano non mediante lo studio, ma per una cotal usanza in segnato l'uno all'altro per molti e molti anni i pittori di que' tempi, sen za pensar mai a migliora re il disegno a bellezza di colorito o invenzione alcuna che buona fusse. Essendo dopo quest'o pera richiamato Cima bue dallo stesso guardia no ch'e' gl'aveva fatto I'opere di S. Croce, gli fe ce un Crocifisso grande in legno che ancora oggi si vede in chiesa; la quale opera fu cagione, paren do al guardiano esser sta to servito bene, ch'e' lo conducesse in S. Francesco di Pisa loro convento a fare in una tavola un S. Francesco, che fu da que' popoli tenuto cosa rarissima, conoscendosi in esso un certo che più di bontà, e nell'aria della testa e nelle pieghe de' panni, che nella maniera greca non era stata usata insin allora da chi aveva alcuna cosa lavorato non ptlr in Pisa, ma in tutta Italia. Avendo poi Cimabue per la medesima chiesa fatto in una tavola grande l'immagine di Nostra Donna col Figliuolo in collo e con molti Angeli intorno, pur in campo d'oro, ella fu dopo non molto tempo levata di dove ell'era stata collocata la prirna volta per farvi l'altare di marmo che vi è al presente, e posta dentro alla chiesa allato alla porta a man manca: per la quale opera fu molto lodato e premiato da' Pisani. [...]
Per queste opere dunque essendo assai chiaro per tutto il nome di Cimabue, egli fu condotto in Ascesi, città dell'Umbria, dove in compagnia d'alcuni maestri greci dipinse nella chiesa di sotto di S. Francesco parte delle volte, e nelle facciate la vita di Gesù Cristo e quella di S. Francesco, nelle quali pitture passò di gran lunga que' pittori greci; onde cresciutogli l'animo, cominciò da sé solo a dipigner a fresco la chiesa di sopra, e nella tribuna maggiore fece sopra il coro, in quattro facciate, alcune storie della Nostra Donna, cioè la morte, quando è da Cristo portata l'anima di lei in cielo sopra un trono di nuvole, e quando in mezzo a un coro d'Angeli la corona, essendo da piè gran numero di Santi e Sante, oggi dal tempo e dalla polvere consumati. Nelle crociere poi delle volte di detta chiesa, che sono cinque, dipinse similmente molte storie. Nella prima, sopra il coro, fece i quattro Evangelisti maggiori del vivo e così bene che ancor oggi si conosce in loro assai del buono, e la freschezza de' colori nelle carni mostrano che la pittura cominciò a fare per le fatiche di Cimabue grande acquisto nel lavoro a fresco. La seconda crociera fece piena di stelle d'oro in campo d'az[z]urro oltramarino. Nella terza fece, in alcuni tondi, Gesù Cristo, la Vergine sua madre, S. Giovanni Battista e S. Francesco, cioè in ogni tondo una di queste figure et in ogni quarto della volta un tondo. E fra questa e la quinta crociera dipinse la quarta di stelle d'oro, come di sopra, in az[z]urro d'oltramarino. Nella quinta dipinse i quattro Dottori della Chiesa et appresso a ciascuno di loro una delle quattro prime religioni - opera certo faticosa e condotta con diligenza infinita. Finite le volte, lavorò pure in fresco le facciate di sopra della banda manca di tutta la chiesa, facendo verso l'altar maggiore, fra le finestre et insino alla volta, otto storie del Testamento Vecchio, cominciandosi dal principio del Genesi e seguitando le cose più notabili. E nello spazio che è intorno alle finestre, insino a che le terminano in sul corridore che gira intorno dentro al muro della chiesa, dipinse il rimanente del Testamento Vecchio in altre otto storie. E dirimpetto a questa opera in altre sedici storie, ribattendo quelle, dipinse i fatti di Nostra Donna e di Gesù Cristo. E nella facciata da piè, sopra la porta principale, e intorno all'occhio della chiesa fece l'ascendere di lei in cielo e lo Spirito Santo che discende sopra gl'Apostoli. La qual opera, veramente grandissima e ricca e benissimo condotta, dovette, per mio giudizio, fare in que' tempi stupire il mondo, essendo massimamente stata la pittura tanto tempo in tanta cecità; et a me che l'anno 1563 la rividi parve bellissima, pensando come in tante tenebre potesse veder Cimabue tanto lume. Ma di tutte queste pitture (al che si deve aver considerazione) quelle delle volte, come meno dalla polvere e dagl'altri accidenti offese, si sono molto meglio che l'altre conservate. Finite queste opere, mise mano Giovanni a dipignere le facciate di sotto, cioè quelle che sono dalle finestre in giù, e vi fece alcune cose, ma essendo a Firenze da alcune sue bisogne chiamato non seguitò altramente il lavoro, ma lo finì, come al suo luogo si dirà, Giotto molti anni dopo. [...]
Ora, perché mediante queste opere s'aveva acquistato Cimabue con molto utile grandissimo nome, egli fu messo per architetto in compagnia d'Arnolfo Lapi, uomo allora nell'architettura eccellente, alla fabrica di S. Maria del Fior[e] in Fiorenza. Ma finalmente, essendo vivuto sessanta anni, passò all'altra vita l'anno milletrecento, avendo poco meno che resuscitata la pittura. Lasciò molti discepoli, e fra gl'altri Giotto che poi fu ecc [ellente] pittore; il quale Giotto abitò dopo Cimabue nelle proprie case del suo maestro, nella via del Cocomero. Fu sotter[r]ato Cimabue in S. Maria del Fiore, con questo epitaffio fattogli da uno de' Nini: «CREDI DIT UT CIMABOS PICTURAE CASTRA TENERE. SIC TENUIT VIVENS. NUNC TENET ASTRA POLI».
Non lascerò di dire che se alla gloria di Cimabue non avesse contrastato la grandezza di Giotto suo discepolo, sarebbe stata la fama di lui maggiore, come ne dimostra Dante nella sua Commedia, dove, alludendo nell'undecimo canto del Purgatorio alla stessa inscrizzione della sepoltura, disse: «Credette Cimabue nella pittura/tener lo campo, et ora ha Giotto il grido,/sì che la fama di colui oscura».
Nella dichiarazione de' quali versi, un comentatore di Dante, il quale scrisse nel tempo che Giotto vivea e dieci o dodici anni dopo la morte d'esso Dante, cioè intorno agl'anni di Cristo milletrecentotrentaquattro, dice, parlando di Cimabue, queste proprie parole precisamente: «Fu Cimabue di Firenze pintore nel tempo di l'autore, molto nobile di più che omo sapesse, e con questo fue sì arogante e sì disdegnoso, che si per alcuno li fusse a sua opera posto alcun fallo o difetto, o elli da sé l'avessi veduto (che, come accade molte volte, l'artefice pecca per difetto della materia in che adopra o per mancamento ch'è nello strumento con ch'e' lavora), immantenente quelI'opera disertava, fussi cara quanto volesse. Fu et è Giotto intra li dipintori il più sommo della medesima città di Firenze, e le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a Vignone, a Firenze, a Padova et in molte parti del mondo» [...]
Ma per tornare a Cimabue, oscurò Giotto veramente la fama di lui non altrimenti che un lume grande faccia lo splendore d'un molto minore; perciò che, se bene fu Cimabue quasi prima cagione della rinovazione dell'arte della pittura, Giotto nondimeno, suo creato, mosso da lodevole ambizione et aiutato dal cielo e dalla natura, fu quegli che andando più alto col pensiero aperse la porta della verità a coloro che l'hanno poi ridotta a quella perfezzione e grandezza in che la veggiamo al secolo nostro. Il quale avezzo ogni dì a vedere le maraviglie, i miracoli e l'impossibilità degli artefici in questa arte, è condotto oggimai a tale che di cosa che facciano gli uomini, benché più divina che umana sia, punto non si maraviglia, e buon per coloro che lodevolmente s'affaticano, se in cambio d'essere lodati et ammirati non ne riportassero biasimo e molte volte vergogna.
Il ritratto di Cimabue si vede di mano di Simone Sanese nel capitolo di Santa Maria Novella, fatto in profilo nella storia della Fede in una figura che ha il viso magro, la barba piccola, rossetta et apuntata, con un capuccio secondo l'uso di quei tempi che lo fascia intorno intorno e sotto la gola con bella maniera. Quello che gli è a lato è l'istesso Simone maestro di quell'opera, che si ritrasse da sé con due specchi per fare la testa di profilo, ribattendo l'uno nell'altro. E quel soldato coperto d'arme che è fra loro è, secondo si dice, il conte Guido Novello, signore allora di Poppi.

Il brano è tratto da G. Vasari, Le Vite (1568), Firenze s.d. (1969), pp. 35-44.



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