Amor sacro e amor profano, 1514, Olio su tela; 118 x 278 cm Roma, Galleria Borghese.
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Amor sacro e amor profano è il brutto, fuorviante, e purtroppo indistruttibile titolo settecentesco per un quadro famosissimo di Tiziano: quadro affascinante, compendio della tradizione giorgionesca dell'allegoria en plein air e del suo sviluppo a opera del primo Tiziano; e quadro difficile ma non poi così tanto, se lo si legge collocando i dati di cultura letteraria o filosofica nel contesto degli eventi storici, pubblici e privati. Di certo è un quadro sul tema d'amore, dove è evidente il contrasto e la conciliazione di morte e vita (il sarcofago che diventa fontana) nonché il contrasto e la conciliazione delle due figure femminili (che siano Venere mondana e Venere celeste, o Bellezza e Voluttà, o quant'altro proposto da un'ampia tradizione di studi iconologici), e dove è Amore in persona, fanciullo alato, a temperare i contrasti e a mediare le conciliazioni. Di certo è un quadro di matrimonio. Si trattava di un matrimonio assai singolare, che univa, il 17 maggio 1514, Niccolò Aurelio, esponente di una famiglia cittadina di vantate origini romane, a Laura, orfana di Bertuccio Bagarotto, l'eminente giurista padovano mandato a morte dalla Serenissima per aver preso le parti degli imperiali (o almeno così si ritenne) durante la crisi del 1509, e vedova del nobile padovano Francesco Borromeo, imprigionato nella stessa occasione e per la medesima ragione, e con ogni probabilità giustiziato poco più tardi. Al tempo di queste vicende, Niccolò Aurelio era segretario del Consiglio dei Dieci che aveva pronunciato le condanne. Non vi può essere dubbio che queste nozze costituiscano l'occasione del quadro, perché nella fontana è "scolpito" lo stemma degli Aurelii e nel fondo del bacile posato sul bordo è "inciso" lo stemma di casa Bagarotto. Si può immaginare che non fosse facile sanare il contrasto personale e famigliare, trasformare una memoria di morte in promessa di vita, conciliare la sposa allo sposo. I documenti recentemente scoperti offrono la soluzione politica, economica, sociale della vicenda: il 16 maggio 1514 - il giorno prima delle nozze - un atto del Consiglio dei Dieci, di pugno di Niccolò Aurelio, restituiva a Laura Bagarotto la ricca dote confiscata nel 1509, restituendole nel contempo la dignità preliminarmente necessaria alla celebrazione del suo nuovo matrimonio. Il dipinto spiega che furono necessarie la mediazione di Amore e la persuasione di Venere. La donna vestita ha tutti gli attributi della sposa, e d'alto rango: i capelli sciolti sulle spalle, la coroncina di mirto sul capo, il mazzetto di roselline nella mano destra, il vaso o cesto metallico munito di coperchio (un portagioie, o più probabilmente una versione ricca della scatola da cucito, tradizionale dono di nozze), le vesti bianche e vermiglie, la cintura chiusa dalla fibbia, e finanche i guanti, segno di raffinata eleganza e metaforica custodia delle belle mani. Se non bastasse, nel fondo c'è anche una coppia di conigli, augurio esplicito d'abbondante prole. Sul piano allegorico, la donna vestita sarà dunque la Venere mondana dei neoplatonici, o magari, come si potrebbe ritenere sulla scorta del mazzolino, Flora, dea della fecondità di primavera, della stagione degli amori e dei matrimoni (la vediamo nei dipinti di Tiziano agli Uffizi e di Palma il Vecchio a Londra): in ogni caso, una personificazione adatta a rappresentare Laura come sposa. La nuda Venere celeste con la fiamma d'amore è la personificazione adatta a rappresentare la persuasione nei confronti della sposa. Amore che prova e tempera l'acqua è la personificazione competente a trasformare la morte in vita, il sarcofago con le scene di insidia e castigo in fontana celebrativa con gli stemmi degli sposi e l'amorosa rosa, e dunque a rappresentare la svolta nella vita della sposa. Ma l'allegoria, evidentemente, non esaurisce il significato. La realtà storica - di cui, nell'occasione, conosciamo già i termini essenziali - sollecita un passaggio intermedio che meglio risponda ai dettagli figurativi (per intenderci: una dea - quale che sia - non porta guanti). Questo passaggio intermedio è garantito dalle tante immagini di "belle donne" veneziane, promesse spose e spose novelle, vestite e svestite, impegnate ad affermare e a connotare la propria castità ma anche a garantire la propria sessualità, a esibire e vantare il corpo, a promettere amore: nella sola dimensione socialmente e figurativamente possibile, il matrimonio; nel solo luogo socialmente e figurativamente possibile, la casa; per il solo pubblico socialmente e figurativamente possibile, lo sposo. Nel capolavoro di Tiziano - dove non c'è né amor sacro né amor profano, ma la realtà e l'ideologia dell'amore matrimoniale - le due donne sono tanto somiglianti non solo perché sul piano dell'allegoria rispondono a due divinità variamente gemelle, ma perché sul piano della storia rimandano ai due aspetti invariabilmente gemelli nella perfetta sposa: vestita, e ampiamente connotata da simboli e attributi, come sposa nella dimensione pubblica, ufficiale, sociale, e dunque casta, moderata, domestica, elegante, feconda; svestita, e connotata - oltre che dal corpo - soltanto dalla fiamma d'amore, come sposa nella privata dimensione coniugale, e dunque sensuale, disponibile, ardente. Davanti alla vestita - davanti alla sposa, che ci guarda con intenzione - ci siamo anche noi, chiamati a diretti testimoni della sua nuova dignità. Davanti alla nuda che non ci guarda, davanti alla moglie, c'è solo il marito. | |
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