Diana e Atteone, 1556-1559, Olio su tela; 190 x 207 cm Edimburgo, National Gallery of Scotland. I soggiorni alla Dieta imperiale di Augusta del 1548 e del 1550-1551 segnano emblematicamente, oltre che concretamente, la separazione di Tiziano da Venezia. Di lì, a seguito del rapporto da tempo stabilito con Carlo V, prende l'avvio quello con Filippo II, non un "mecenate" ma piuttosto un abile e insolvente collezionista, come risulta con assoluta chiarezza dal carteggio con l'artista e con i molti funzionari italiani. Se Tiziano accettò per oltre vent'anni la situazione, fu evidentemente perché questa, pur non gratificandolo sul piano materiale, gli assicurava la più totale libertà di | |
invenzione, di interpretazione, di esecuzione, al di fuori di ogni controllo. La mitologia classica era di moda nella cultura figurativa veneziana fin dai tempi "giorgioneschi", e continua a esserlo lungo tutto il secolo, con le opere di Andrea Schiavone, di Paris Bordon (Giove e Io), di Jacopo Tintoretto (Venere sorpresa da Vulcano), di Paolo Veronese. Eppure non uno dei dipinti mitologici dell'ultimo Tiziano è destinato a Venezia: tanti vanno regolarmente a Filippo II, e i capolavori estremi non vanno da nessuna parte perché non dipendono da una commissione ma da una scelta indipendente, del tutto eccezionale nella prassi di quel tempo. In realtà la mitologia tizianesca è assente da Venezia in quanto risponde allo sviluppo coerente di una poetica assolutamente incompatibile, per il suo contenuto negativo, con la cultura dominante del secondo Cinquecento. Quando Tiziano pone sotto accusa la prepotenza e l'ingiustizia degli antichi dèi, i nuovi dèi e semidei del suo tempo non possono certo invocare ire e furori dell'Inquisizione: rispondono sullo stesso terreno, chiedendo e ottenendo da altri pittori miti armonici e tranquillizzanti, e lasciando cadere la solitaria accusa nel più profondo silenzio. Adone, troppo appassionato della caccia, abbandona gli amori di Venere, e viene ucciso da un cinghiale inferocito (Ovidio, Metamorfosi X, 298-559 e 708-739): la sua storia è raccontata da Tiziano in un dipinto spedito a Filippo II nel 1554 (che è probabilmente Venere e Adone oggi al Prado) e replicata in parecchie altre versioni, autografe o con la collaborazione della bottega. Tiziano concentra l'attenzione sulla partenza del giovane, incoraggiata dall'inattività di Amore dormiente, solo per un attimo rinviata dall'estremo abbraccio di Venere. Paolo Veronese non rappresenta invece la fatale scelta dell'eroe ma il momento degli amori o dell'appagamento nel sonno, mentre Cupido è attento a trattenere i cani. Un altro cacciatore, Atteone, è condotto dal caso a scoprire Diana e le sue ninfe nude alla fonte; viene tramutato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani (Ovidio, Metamorfosi III, 138-252). Tiziano, nel dipinto di Diana e Atteone spedito a Filippo II nel 1559 insieme a quello di Diana e Callisto, concentra nuovamente l'attenzione su un unico momento fatale, quello in cui Atteone giunge alla fonte e sùbito - come si rileva dal suo gesto di sorpresa e di paura, oltre che dallo sguardo terribilmente minaccioso di Diana - comprende e prevede l'imminente disgrazia: lui, un mortale, è penetrato nello spazio privilegiato degli dèi, anzi, ha visto senza veli le castissime ninfe e la dea stessa della castità. Non potrà raccontarlo a nessuno. Anche in questo caso, Tiziano non rappresenta direttamente la tragica conclusione della vicenda, affidata soltanto all'allusione del teschio di cervo in evidenza sul pilastro (per ora; ma le dedicherà negli anni estremi lo sconvolgente dipinto con la Morte di Atteone). Quel che gli interessa, come nella storia di Adone, è sottolineare il significato negativo della caccia, metafora dell'instabilità della vita umana, inevitabilmente soggetta al capriccio della fortuna e all'ingiustizia degli dèi. Per questo la fonte è a sua volta obliqua e instabile. Per questo la bianchissima Diana è accompagnata da un'imprevedibile "ancella nera", che possiamo comprendere solo se pensiamo al significato di Diana come Luna: luna che ha una parte luminosa e una parte oscura, che può apparire per una parte del ciclo in tutto il suo splendore, poi mostrarsi solo parzialmente, infine scomparire nelle tenebre; luna che indica il lato occulto e segreto dell'ordine e verità di natura; luna che determina l'instabile alternanza delle maree, sinonimo della mutevole fortuna. Il contrasto allegorico di caccia e fonte segnala l'alternativa di vita attiva e vita contemplativa. Il cacciatore non può entrare nello spazio della dea - che è spazio della contemplazione, della verità di natura - senza esserne violentemente respinto. Diana, bianca e nera, reagisce in conformità a una legge superiore e immutabile, che gli uomini chiamano fortuna per mascherare debolezza e soggezione. Non c'è provvidenza nel mito, ma anzi la tragedia di un rapporto tra dèi e uomini che rispecchia il rapporto storico tra dominanti e subalterni. | |
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