Tiziano
San Gerolamo nel deserto San Gerolamo nel deserto,
1570-1575,
Olio su tela;
1216 x 175 cm
El Escorial, Monastero di San Lorenzo, Sale Capitolari.

Nel quadro dell'elogio cristiano-umanistico della vita contemplativa, la cultura veneziana di secondo Quattrocento/primo Cinquecento costruisce e diffonde l'iconografia, destinata a lunghissimo percorso, di San Gerolamo nel deserto. L'immagine presenta due aspetti complementari: l'eremita penitente, concentrato nella meditazione/imitazione di Cristo, caratterizzato dal sasso e dalla croce (Cima da Conegliano a Washington); l'eremita studioso, impegnato nella traduzione e nel commento delle Scritture, caratterizzato dal libro o dai libri (Bellini agli Uffizi, Lotto in Castel Sant'Angelo). Tutti e due comunque caratterizzati - oltre che dall'immancabile leone mansueto - da un "deserto" in realtà popolatissimo di simboli, soprattutto delle pessime bestie della tentazione: locuste, scorpioni, serpenti, sauri d'ogni genere e dimensione.

Il denominatore comune è in ogni caso la figurazione dell'eremo e dell'eremita: la prima scelta obbligata nel percorso di raffinamento morale e intellettuale è l'abbandono della città, il disprezzo del mondo. La vita solitaria di Gerolamo diventa un modello di libero studio e libero sapere, di consapevolezza personale, di religione individuale: non c'è da stupirsi che abbia un successo costante, e che tale successo cresca ulteriormente nel secondo Cinquecento in reazione al progressivo "disciplinamento" delle coscienze e al pressante controllo del comportamento morale e religioso.

Ciò spiega perché nei dipinti di secondo Quattrocento/primo Cinquecento l'eremita, anche se penitente, anche se circondato da insidiose bestiacce, non sembri minimamente turbato e se ne stia tutto tranquillo nel suo angolo di natura, mai troppo inospitale e a volte addirittura piacevole; e spiega perché nei dipinti successivi accada sempre più il contrario.

Con il San Gerolamo oggi a Brera, dipinto intorno al 1555 per la chiesa veneziana di Santa Maria Nova, l'eremita approda al grande formato e alla larga funzione della pala d'altare. Non è cambiata solo la destinazione, ma sono cambiati i tempi: che ora sono tempi di drammatica tensione spirituale, di inquieta meditazione sul significato dell'esperienza religiosa. L'eremitaggio non è più una piacevole scampagnata ma un'allucinante tempesta di emozioni, un confronto estremo con se stessi e con una natura selvaggia e ostile che mette a durissima prova la resistenza fisica e mentale. Gerolamo appare combattivamente aggrappato al sasso e alla croce, ma sovrastato dalla montagna scoscesa che sembra volergli rovesciare addosso le ombre agitate degli alberi; insidiato dal lucertolone che sale sulla roccia; ammonito dall'osso, dal teschio e dalla clessidra, segnali della vanità dell'esistenza umana, del tempo che scorrendo inesorabile ha "chiuso" anche i libri alle sue spalle.

Il San Gerolamo dell'Escorial, inviato a Filippo II nel 1575, è uno dei pochi dipinti degli anni estremi che abbia una precisa e prestigiosa destinazione, e dunque, come sempre avviene in simili casi, l'esecuzione è perfettamente "finita", sia pure con tutte le libertà e i diversi "gradi" dell'ultima maniera: è naturalmente finitissima la figura, ma lo sono anche il leone e i vari oggetti di competenza dell'eremita; il paesaggio nei piani vicini e intermedi (la fonte, le rocce, l'albero, e soprattutto il grande arco naturale) è realizzato con straordinaria ricchezza e varietà di tocchi; lo sfondo lontano è una attenuata fantasia di luci naturali e soprannaturali.

Diversamente dal tormentato protagonista della pala di Brera, qui l'eremita vive un'esperienza relativamente tranquilla. Resta preminente la caratterizzazione penitenziale: Gerolamo ha il sasso in mano ed è rivolto al crocifisso; alle sue spalle ci sono i libri chiusi, carte sparse e la clessidra. Ma intanto sono scomparsi l'osso e il teschio, ovvero i più sgradevoli indicatori della caducità dell'esistenza umana; e poi il santo, pur essendo impegnato nel confronto col martirio di Cristo, non ha affatto rinunciato al libro, anzi lo tiene ben aperto davanti a sé, come a trarne ulteriori suggerimenti per la sua meditazione. La sua figura, del resto, mantiene l'atletica costituzione del prototipo ma appare assai più rilassata; lo sguardo non è più di rabbia e stanchezza ma di fiduciosa dedizione, tanto più che la croce si illumina miracolosamente di un fascio di luce divina proveniente da un angolo nascosto del cielo.

Come Tarquinio e Lucrezia, il San Gerolamo dell'Escorial è il quadro "di e per Filippo", ed è come a lui doveva piacere: dunque è regolarmente finito, e gradevolissimo alla vista. Ma è anche una pala d'altare, destinata al monastero e ai suoi monaci: che - plausibilmente non interessati a questioni di estetica - dovettero certamente apprezzare un modello di esperienza ascetica tanto avvicinabile, capace di conciliare serenamente penitenza e studio.

Allo stesso modo che per Tarquinio e Lucrezia, se vogliamo invece il quadro "di Tiziano", dobbiamo cercarlo tra quelli "non finiti", senza destinatario e senza storia, drammatici e personalissimi: insomma, nel San Gerolamo Thyssen, dove sono rimasti soltanto il sasso, il libro e un crocifisso più grande e più vivo del solito (e la clessidra, anche se nessuno l'ha vista, nascosta com'è tra il fogliame), dove il volto emaciato dallo sguardo fisso contraddice la robustezza del corpo e la tensione dei muscoli, dove la natura è un turbine di forme agitate e corrose. Dove colui che ha abbandonato tutto - ma non Cristo, non la sapienza - ha già l'inconfondibile profilo del vecchio Tiziano: in attesa dell'ultimo Gerolamo e dell'ultimo autoritratto nel testamento figurato della Pietà.



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