Tiziano
Pietà Pietà,
1570-1576,
Olio su tela;
378 x 347 cm
Venezia, Gallerie dell'Accademia.

Stando alle fonti, Tiziano intendeva destinare la Pietà alla cappella del Crocifisso in Santa Maria dei Frari, la grande chiesa francescana dove aveva lasciato, mezzo secolo prima, l'Assunta e la Pala Pesaro: in cambio del dipinto, i frati gli avrebbero concesso sepoltura nella medesima cappella. Ma l'accordo andò solo in parte a buon fine: Tiziano, morto il 27 agosto 1576 mentre Venezia era sconvolta dalla peste, fu effettivamente sepolto ai Frari, nella cappella prevista o in altro luogo imprecisato; ma non vi giunse mai la Pietà, o perché Tiziano al solito ne tirò in lungo l'esecuzione, o perché i frati ritennero il dipinto e il suo soggetto poco appropriati al titolo della cappella e comunque troppo "concorrenziali" nei confronti dell'antico e veneratissimo crocifisso che vi si trovava.

Dopo la morte di Tiziano, la Pietà, incompiuta, fu acquisita (ma non sappiamo come e perché) da Palma il Giovane: un eccellente pittore che aveva frequentato l'atelier del grande vecchio, che conosceva perfettamente la sua ultima maniera e sapeva (quasi) perfettamente imitarla. Ma la Pietà era un quadro troppo grande, troppo importante, forse già troppo noto: Palma si limitò a qualche intervento secondario e a una ripassatura generale di uniformazione (come è stato chiarito dal recente restauro), e fu costretto a rilasciarne, dentro il quadro, dichiarazione scritta. Nel Seicento, forse dopo la morte di Palma, il dipinto passò nella chiesa di Sant'Angelo, dove rimase fino al trasferimento ottocentesco nelle Gallerie dell'Accademia.

La scena è dominata dalla pietra. I personaggi si dispongono su una sorta di ampia pedana dinanzi a un grande sacello a nicchia, in prevalente stile rustico contraddetto da un più canonico timpano. Ai lati dell'edicola stanno, sopra i piedistalli con teste feroci di leone, le statue di Mosè, con le tavole della Legge e con la magica verga che gli servì a molti prodigi, e della Sibilla Ellespontica, con la croce in braccio e la corona di spine sul capo.

Questa abbondanza di pietra dipinta si spiega come metafora di Cristo, pietra viva, pietra angolare, pietra di fondamento della Chiesa: coerentemente accompagnato da Mosè, guida dell'antico popolo eletto come Cristo è guida del nuovo, iniziatore dell'era della Legge come Cristo è iniziatore dell'era della Grazia; dall'ellespontica, che tra le Sibille si distingue proprio per aver predetto la crocifissione del Messia; e finanche dai leoni, simboli cristiani di morte e resurrezione.

C'è però anche un'altra spiegazione, di ordine interno alla cultura figurativa di Tiziano: la pietra è la componente fondamentale (ma non la sola) di un evidentissimo omaggio alla memoria di Michelangelo, scomparso nel 1564. Il gruppo di Pietà - iconografia mai praticata prima d'ora da Tiziano - rimanda alla celeberrima Pietà in San Pietro; il Mosè, alla non meno celebre statua in San Pietro in Vincoli; la Sibilla, al Cristo portacroce della Minerva. Queste opere Tiziano le aveva certamente viste durante il soggiorno romano del 1545-1546; con ogni probabilità non ebbe modo di vedere le ultime incompiute Pietà, ma ne ebbe certo notizia. In ogni caso - esattamente come Michelangelo - pensò a una Pietà per la sua sepoltura e usò il "non-finito" come equivalente linguistico/espressivo di una spiritualità drammaticamente irrisolta e inconciliata.

Cristo morto si offre, naturalmente, quale immagine del sacrificio eucaristico, come è confermato nel catino dorato della nicchia dal pellicano che si squarcia il petto per nutrire i figli del proprio sangue. La massiccia, silenziosa, avvolgente figura di Maria che sostiene ed esibisce il corpo del figlio garantisce la sua partecipazione al percorso di salvazione, il suo determinante ruolo di mediatrice e corredentrice. Maddalena agitata scende dalla pedana e ci chiama col braccio alzato, invitandoci, con l'altro braccio proteso all'indietro, a contemplare la scena centrale: mostrando la morte e annunciando la resurrezione. L'angelo che s'appropria del vaso di profumi di Maddalena, buoni per la funebre unzione, l'altro in volo coi ceri accesi, i fiammeggianti "lumini" disposti in bell'ordine sul timpano, sono tutti riferimenti chiarissimi alla tradizionale liturgia di Pasqua.

A destra un vecchio smagrito, solo in parte coperto da un mantello realizzato con rapidi tocchi di bianco e di rosso, si inginocchia davanti a Cristo tendendo il corpo verso di lui, fissando lo sguardo nel suo volto e prendendogli affettuosamente il braccio e la mano. Ormai conosciamo bene le sue fattezze: è ancora una volta il vecchissimo Tiziano dell'Autoritratto del Prado e di tanti altri autoritratti "mascherati".

Qual è, stavolta, la "maschera" di Tiziano? Non è Giobbe, perché dovrebbe avere addosso qualche piaga di riconoscimento e perché Tiziano aveva pensato questo dipinto e questa figura ben prima che scoppiasse la peste. Non è Giuseppe d'Arimatea, perché dovrebbe essere vestito di tutto punto; e non è Nicodemo, perché non potrebbe permettersi tanta intimità e perché anch'egli dovrebbe comunque essere vestito almeno di una tunica, e magari di un cappuccio, come aveva fatto Michelangelo per identificarsi con lui nella Pietà fiorentina.

Il vecchio Tiziano si identifica invece con san Gerolamo, con l'asceta penitente, il solo che possa guardare in faccia Cristo morto e prendere la sua mano in quel modo perché già ha preso sulle spalle la sua sofferenza e la sua solitudine. Non ci può essere il minimo dubbio sull'identificazione (e stupisce che ancora se ne cerchino di alternative), poiché Tiziano ha dipinto questa figura esattamente come le ultime immagini "indipendenti" di San Gerolamo.



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